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STRADE DELLA ROMA PAPALE

Piazza Venezia (R. II - Trevi; R. IX - Pigna; R. X - Campitelli) (vi convergono: via dei Fori Imperiali, via Cesare Battisti, via del Corso, via del Plebiscito, via del Teatro Marcello)

"Il palazzo detto di Venezia dà il nome a questa vasta piazza. Fu già palazzo papale, ed acquistò il nome di Venezia dacché il Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565) lo donò alla Repubblica di Venezia per l'uso dei suoi ambasciatori in cambio di quello assegnato dalla Repubblica al nunzio pontificio. Di ciò si conserva memoria nella seguente iscrizione: 

PIVUS IV MEDICES P. M.
HAS AEDES REIP. VENETAE
ARGUMENTUM AMORIS ET STVDIS
SPONTE DONAVIT IACO SVPERANTIO
EQUITORE ORATORE
MDLXIV

 Passati gli Stati veneti in potere della casa d’Austria, questo palazzo appartiene ora alla corte di Vienna, e vi risiede il suo ambasciatore". (Rufini - 1847).

In effetti quella che il Rufini definisce "vasta piazza", era forse 1/5 dell’odierna.

Entrandovi dal Corso, aveva per sfondo il “palazzetto" (già viridarium [1] del palazzo papale) che ne restringeva l’area all’altezza del limite, a sinistra, della facciata del palazzo. Nel  centro  del  palazzetto [2], scendendo alcuni gradini,  stava  una piccola fontana [3].

Alla sua  sinistra,  finito il palazzetto, una stretta via (la via della Ripresa dei Barberi [4]) lo divideva dal palazzo Torlonia, che aveva il grande ingresso di fronte a quello del palazzo Venezia.

Il palazzo Torlonia, che era stato dei Frangipane, dei Bigazzini e dei Bolognetti, per conto dei quali fu restaurato dal Fontana, fu acquistato ai primi del XIX secolo da Don Giovanni Torlonia [5] che ne fece il palazzo delle meraviglie [6], aumentate dal figlio Alessandro con accogliervi armi, bronzi, statue e quadri di autori antichi e contemporanei, fra i quali primeggiava Antonio Canova (1757-1822) [7] col suo gruppo marmoreo dell’Ercole e Lica.

Il quarto lato della piazza, era occupato dal palazzo appartenuto ai dell’Aste, ai Rinuccini e poi  acquistato da  Letizia  Bonaparte, la  corsa niobe [8], che vi morì il 1 febbraio del 1836.
L’edificio  costruito da Mattia De Rossi (1637-1675) nel 1666 è adesso dei Misciattelli.

Anticamente, quasi ai margini della via Flaminia [9], uscente dalla porta Ratumena della cinta Serviana, e cioè su una parte dell’area del palazzo Venezia, era la "Villa Pubblica" destinata sopra tutto alle operazioni relative al censo, alla leva, e al ricevimento degli ambasciatori.
Lo spazio necessario chiamato "Ovilia" perché, come lo stazzo ovino, diviso da pali e corde, veniva ad avere compartimenti diversi, a seconda del bisogno: 30 per i comizi curiati, 35 per i tributi e 80 per i centuriati.
La località fu trasformata da G. Cesare in una piazza recinta da portici, che furono completati da Agrippa dopo la morte di Cesare (14 a.C.), e chiamati ´´Saepta Julia´´ in suo onore.

Nel secolo XII-XIII, addossata alla Basilica di San Marco [11] sorse una torre massiccia (detta torre della Biscia) che fu la protettrice del palazzo Venezia [12].
Armata di merli guelfi e beccatelli, contrastò il corteo di Enrico VII del Lussemburgo (1308-1313), insieme con l’altra, detta del "Cancelliere o del Mercato” (Turris pedis Mercati) [13], che si trovava dov’è adesso il palazzo Muti nella distrutta piazza di San Venanzio, già di S. Giovanni in Mercatello.

L'imperatore era sceso in Italia nel 1310, invocato da Dante e dai ghibellini.
Dopo la corona regia avuta a Milano [14], venne a Roma nel 1312 per cingere quella imperiale, ma la lega dei guelfi comandata da Giovanni d’Acaia, che possedeva il Campidoglio, gli impedì di recarsi a S. Pietro, dove avrebbe dovuto essere incoronato dai legati del Pontefice Clemente V (Bertrand de Gouth - 1305-1314) allora ad Avignone.
I 3 cardinali legati: Arnaldo Pelagru vescovo della Sabina; Nicolò di Ostia; Luca Fieschi di Santa Maria in via Lata, inutilmente chiesero agli Orsini e a Giovanni d’Acaia [15] che lasciassero libero il passaggio al corteo dell’incoronazione. Infatti l’imperatore non riuscì a passare, nonostante avesse avuto la torre delle milizie dal 23 maggio,  in particolare per la resistenza oppostagli nei diversi punti della città [16] e specialmente dalle torri del Cancelliere della Biscia (in via della Tribuna di Tor de’ Specchi - vedi Campitelli).

Enrico VII dovette contentarsi, partendo dal palazzo di Santa Sabina [17] su un candido cavallo, vestito di abiti bianchi con i biondi capelli fluenti sue spalle, di recarsi in mezzo alle rovine del Laterano che era ancora in costruzione.
Qui il cardinale Nicolò impose  ad Enrico  il diadema sulla  mica bianca e, per la prima volta da quando esisteva l'impero, il Papa non intervenne in un’opera nella quale egli soltanto, a ricordo umano, poteva impartire vera consacrazione.

In compenso è Dante che lo farà legittimamente sedere sul trono che Beatrice gli mostra nel XXX canto del Paradiso: 

“In quel gran seggio, a che tu gli occhi tieni
Per la corona che già v'è su posta,
Prima che tu a queste notti ceni,
Sederà l'alma, che fia già agusta
Dell'altro Arrigo ch’a drizzare Italia
Verrà in prima ch’ella sia disposta”.

 La torre del “Cancelliere” [18] fu distrutta (1327), durante gli scontri tra Ludovico il Bavaro (1314-1347) e re Roberto d’Angiò (1309-1343), dal popolo romano e quella della "Biscia" fu danneggiata gravemente [19].

Col tempo attorno a questa torre, così ridotta, si aggrupparono alcune case che trovarono la loro base sui fornici dei Saepta.
In esse andò ad abitare il cardinale Pietro Barbo, quando lo zio Eugenio IV (Gabriele Condulmer -1431-1447) gli conferì la porpora con titolo di Santa Cecilia, a soli 23 anni, nel 1440.
Il giovane porporato cercò di ridurre in migliori condizioni l’abitazione che gli era stata destinata, ma, quando fu nominato cardinale del "titulus Marci in Pallacina", passò dal progetto di restauro a quello di costruire un palazzo che, secondo il primitivo disegno, avrebbe dovuto avere, oltre la torre della Biscia, altre due torri dal lato di via degli Astalli.
Di tale progetto, non portato a termine, restano visibili tuttora le due basi solidissime e, in uno dei voltoni, al piano terreno, lo stemma del nipote del Papa Paolo II, Marco Barbo.

Ottenuto, dal pontefice regnante, Niccolò V (Tommaso Parentucelli - 1447-1455), il permesso di occupare con suo palazzo anche alcuni tratti della via pubblica, il cardinale Pietro acquistò  dei terreni vicini [20] onde costruire, adiacente al palazzo,  un giardino sopraelevato che, circondato da portici a loggiato, avrebbe permesso la visuale sulla strada pubblica.
La costruzione dell’edificio fu iniziata circa il 1455 e protratta nel tempo, tanto che alla morte del Pontefice, il 26 luglio 1471, non era ancora finita la loggia della benedizione papale, sulla facciata della chiesa e la parte del palazzo verso nord.

Numerosi gli artisti cui è stata attribuita la costruzione dell’edificio: Giuliano da Maiano, Raimondo di Lorenzo, Giacomo Pietrasanta, Leone Battista Alberti ed altri ancora.

Ma è certo che dall’insieme architettonico tanto del Palazzo come del Portico della basilica di San Marco, ed in diversi particolari, si rispecchiano le idee dell’Alberti che, come lui stesso ha dichiarato, non si occupava dell’esecuzione dei lavori da lui progettati perché: "É abbastanza dare il fidato consiglio et segno a chi te ne ricerca"[21].
Infatti racconta il Vasari che anche Niccolò V si servì di lui e del Rossellino, del "parere dell’uno con l’eseguire dell’altro".
L’Alberti (1404-1472) dice, dopo aver ammirato i cassettoni della volta del Pantheon: “Io li ho usati di fare in questo modo con poca fatica et con poca spesa" ed i cassettoni li vediamo nell’entrata a levante del palazzo Venezia.
Così ugualmente, ispirandosi sempre al Pantheon, l’Alberti fece tagliare lungo il diametro le colonne più corpose (anziché a due terzi), come si usava per i giardini cinti di logge, così come lui stesso dice: "l'ospite potesse cercare secondo l’ora e la stagione, nell’uno e nell’altro lato, il refrigerio dell'ombra”. Tutte predilezioni del grande artista che si manifestano in particolari anche strani, come quello delle fontane rappresentate nelle camere da letto.
Infatti l’Aberti dichiarava "a coloro che hanno la febbre giova grandissimamente il vedere dipinte fontane... del che si può fare esperienza; se alcuna volta non potrà nella notte dormire per la fantasia di alcune limpidissime acque... si inhumidirà subito quella siccità dello star desto, et ne verrà il sonno, tanto che si addormenterà dolcissimamente".

Dove poi, per lo stile, si manifesta in pieno l’opera dell’Alberti è soprattutto nel cortile [22] rimasto incompiuto per un terzo, dove, da un portico a doppio ordine di travertino, ben decorato, spicca ora una fontana barocca che, pur non accordandosi con l’architettura del palazzo, dà quel senso di “refrigerio” da lui voluto per l’ospite.
Refrigerio che, al posto della fontana, collocatavi nel XVIII secolo, lodava la primitiva cisterna in marmo scolpita da Antonio da Brescia.
È comunque da credere che ideatore del palazzo fu l’Alberti anche se in qualche parte gli esecutori abbiano aggiunto la loro personalità.

La torre della Biscia fu pure "acconzata" da papa Barbo (Paolo II) e così l'altra, più piccola, interna al palazzo stesso. Fra le spese del 1466 è annotato: "Iohanni Battista cittadino romano di avere per doi legni di castagno dati per fare la scala che passa dal zardino in nella torre della bissa, romasto d’accordio con lui per fiorini doi de camera".

Si dice che il Pontefice abbia speso per la costruzione di tutto l'edificio 116.000 scudi, ma quello che non si dice è che poco mancò che l’erigendo palazzo non costasse la vita a Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471).
Infatti la promulgazione che i "brigosi[23] erano gente infame, che le case dei quali avrebbero dovuto essere smantellate, indussero un gruppo di questi “brigosi” a nascondersi fra le rovine della casa dei Capranica, in via San Marco, per non essere notati dai fanti di Marzano Savelli, che avevano il Papa in custodia, ed assalire così il pontefice. Ma il colpo fallì.

Uomo del suo tempo, era amantissimo della buona tavola e di tutto ciò che fa piacevole la vita.
I visitatori di Roma in quei tempi rimasero scandalizzati dalla corruzione che vi regnava, tanto da far scrivere ad uno di essi: "Paolus II ex concubina domum replevit et quasi sterquilinium facta est sedes Barionis”.

E Pasquino rispose, alla domanda che gli faceva Marforio: "Urbe tot in Veneta scortorum millia cur sunt?”, così: “In promptu causa est: est Venus orta mari".

Nel suo palazzo, dove dimorava la maggior parte del tempo, dava banchetti ai più alti cittadini e sulla piazza al popolo, mentre lui dal balcone, guardando lo spettacolo dei convitati, buttava giù monete fra la plebaglia che faceva ressa per acciuffare gli avanzi delle mense [24].

Fin dai primi anni del suo Pontificato, Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471) fece celebrare sul Corso le feste di carnevale, che fino ad allora erano state prerogativa dei prati del Testaccio.
Cortei bacchici, rappresentazioni mitologiche di numi, eroi, ninfe, geni, corse che, partendo dall'arco di Domiziano [25],  si svolgevano sotto la loggia del suo palazzo, così come dice una cronaca contemporanea: "Lo dicto Papa Paulo in principio del suo Papato, volendo far cosa grata a li Romani, se ne venne ad abitare al Sancto Marco, et ampliò la festa dello carnevale, et fece che lo lunedì dinanzi allo carnevale se corresse [26] pe li garzoni un palio et lo martedì li iudei se ne corresse l'altro; lo mercoledì quello de li vecchi; lo iovedi se giva al Nagoni [27] (Navona), lo venerdì se stava in casa; lo sabato alla caccia; la domenica se ricorrevano li tre pali consueti; lo lunedì correvano li buffoli et lo martedì li asini, et di queste cose lui si pigliava piacere".

Risultato di queste innovazioni fu che la Flaminia si chiamò da allora il Corso e che fino a tutto il secolo XIX il carnevale [28], salvo qualche breve interruzione, si svolse sempre sul Corso [29]. (L'ultima corsa dei Barberi 1882).

In questo palazzo papale di Piazza Venezia egli “con vanità di mente inferma, ammassò gemme su gemme per decorarne la sua corona pontificia; e quei gioielli si stimarono a non meno di 200.000 fiorini d'oro. Lo aiutò, nell'aumentare la sua collezione, la morte del cardinale Scarampo, nel 1465, il testamento del quale fu da lui annullato, e ripresi i nipoti del cardinale che erano fuggiti per goderne l'eredità a loro negata, si impadronì della maggior parte di essa"."Vetture intere di monete d'oro e di oggetti preziosi di ogni sorta, che lo Scarampo aveva fatto spedire a Firenze, furono scaricate in Vaticano". "Né in Roma vi fu uno solo che non battesse le mani, perché i tesori dello Scarampo erano stati accumulati a forza di ladrerie".
E così pure quando alla fine del 1465 riuscì ad impadronirsi delle 13 rocche di Everso II degli Anguillara, uno dei più iniqui tiranni dell’epoca, ivi furono trovate ammassate le ricchezze rubate a città, a pellegrini, a mercanti.

Tuttavia, nonostante questi delitti, Everso II lascia nel suo testamento, datato da "Cervetere nella Rocca residentia nostra il 14 gennaio 1460, di lasciare un legato ai canonici di Santa Maria Maggiore, dove fu sepolto (lapide dispersa) e cospicue somme all'ospedale del Laterano", dove il suo stemma figura ancora sul muro esterno dell'edificio.

Paolo II morì, dopo un'abbondante cena di pesce di fiume e di meloni, nella notte del 26 luglio 1471. "Il mattino successivo fu trovato morto nel letto; e poiché era trapassato senza ricevere l’eucarestia, si motteggio che uno spirito racchiuso in uno dei suoi molti anelli lo avesse strangolato...”.
La sera avanti, dopo cena aveva avuto un ultimo colloquio con l’architetto Aristotile Fioravanti, bolognese, celebre meccanico, "dal quale aveva voluto essere informato sul modo col quale trasportare l'obelisco vaticano nella piazza di S. Pietro", idea che fu poi messa in atto da Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590) il 10 settembre 1586 con l'opera di Domenico Fontana.

Dopo la morte di Paolo II fu il nipote, cardinale Marco Barbo patriarca di Aquileia[30] che continuò i lavori del palazzo fino alla sua morte (1491) quando l’edificio era quasi compiuto.
Anche il cardinale Innocenzo Cybo, nipote di Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo - 1484-1492), le armi del quale ricorrono spesso fra il portone di via del Plebiscito e via degli Astalli [31], deve essere intervenuto ad ultimare la costruzione.

Quasi tutti i successori di papa Barbo abitarono nel palazzo, specialmente durante i calori estivi [32], "per respirare aria migliore", finché non passò alla Repubblica di Venezia nel 1564, sotto Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli - 1769-1774).  Austria, Francia, Austria e Italia (guerra 1915-1918) ne furono i successori.

Nella piazza si iniziò il servizio pubblico degli omnibus, nell’ottobre del 1845.
I carrozzoni che avevano il cocchiere seduto sulla "serpa" collocata sul tetto, nella parte anteriore della vettura ed il fattorino in un seggiolino, che sporgeva sospeso nella parte esterna posteriore, faceva pagare per l’andata e ritorno da S. Paolo ben 7 baiocchi e mezzo. Un’altra linea vi si aggiunse che raggiungeva l’ospedale di San Giovanni, ma la vettura non partiva se non era abbastanza piena di passeggeri.

Dopo il 1870, finalmente, una linea tranviaria a...cavalli partiva da Piazza Venezia, davanti al caffè Castellino [33] (attuale Antico Caffè Castellino), e raggiungeva la vecchia stazione di Termini, dopo aver arrancato su, fino al termine dell’attuale via 4 novembre, rinforzato da un "bilancino" (trapelo – terzo cavallo da tiro) che veniva staccato avanti alla villa Aldobrandini.

Il servizio degli autobus a cavalli, seppure modificate le vetture, durò a lungo per il Corso fino a Piazza del Popolo. La spesa che, al principio del servizio, era di cinque baiocchi, fu portata a lire 0,10. Anche la linea, che andava da S. Pietro a Piazza Venezia, fece pagare due soldi, invece di tre baiocchi.

Circa il 1925-1926 cominciarono a circolare gli autobus (i filobus sono del 1938) e così “les carrosses a cinq sous[34], che ebbero per loro antenate quelle che per la prima volta furono istituite a Parigi il 18 marzo 1662, cessarono di esistere.
Ma le linee tranviarie, furono gestite dal 1900 dalla Società Romana Tramvai ed Omnibus, che cambiò in elettrica la linea di via Nazionale, pur mantenendo a cavallo quella che da via della Mercede, Babbuino, piazza del Popolo, arrivava a Piazza Cola di Rienzo.
Vetture ad accumulatori funzionavano, in principio, sulla linea che stendeva i suoi binari dal Pantheon, Ponte di Ripetta, Cola di Rienzo, Piazza Risorgimento, San Pietro e, per un ponte di ferro che stava al posto dell’attuale ponte Vittorio, arrivava per il Corso Vittorio Emanuele a Piazza Venezia, mentre il viceversa era percorso da un’altra linea.
L’apertura del Traforo Umberto I, il 21 ottobre 1902, rivoluzionò tutta la rete e la linea a cavalli scomparve anch'essa, sostituita dal n°16 che da San Giovanni raggiungeva S. Pietro.

Smontato e trasportato, nel 1910, il palazzetto a destra della Basilica di San Marco, abbattuto il palazzo Torlonia e le case che lo seguivano sulla via della Ripresa dei Barbari e quelle che limitavano la Piazza San Marco, la Piazza (ora Venezia), s’era andata ingrandendo e trasformando..

Scomparve anche la Piazza di S. Venanzio, già di S. Giovanni de Mercato o Mercatello ai piedi del palazzo Muti.
Piazza che prendeva il nome dall’omonima Chiesa, anteriore al secolo XIII [35], che aveva cambiato la propria dedica da “San Giovanni in Mercatello” in San Venanzio, quando Clemente IX (Giulio Rospigliosi - 1667-1669) l’aveva data ai Camerinesi [36] residenti in Roma. Ivi era la torre del Cancelliere [37].La chiesa fu demolita nel 1917.

Con la costruzione  del  palazzo  delle  Assicurazioni  Generali  di  Venezia nel 1906 [38] e per l'allargamento della via Nazionale (ora Cesare Battisti) sparì pure la via di S. Romualdo [39] che da Piazza Venezia conduceva ai Santi Apostoli.
Di San Romualdo, che sorgeva di fianco al palazzo Torlonia, fu abate Don Mauro Cappellari, poi Gregorio XVI (Mauro Alberto Cappellari - 1831-1846) che in una prossima bottega di barbiere e cerusico conobbe il ragazzo di bottega "Ghetanino" che diventò l’aiutante di camera di quel pontefice.

Sparì pure (la lapide sul fianco del nuovo palazzo delle assicurazioni ne ricorda l'ubicazione) la casa che fu abitata e dove morì Michelangelo [40] dopo esserci vissuto per circa cinquant’anni.

Altre demolizioni seguirono, finché con l’abbattimento del palazzo Desideri [41] del 1932, la piazza fu completa nella sua nuova forma ed il Vittoriano ebbe quello spazio che la sua mole richiedeva.

Il concorso internazionale per la costruzione del monumento era stato bandito nel 1880 senza indicare il posto dove esso avrebbe dovuto sorgere.
Il vincitore del concorso fu un francese, l’architetto Nénot che pensò di costruire, dov’è ora l’esedra di Termini, due porticati semicircolari uniti da un arco a cavallo di via Nazionale sul quale sarebbe esposta la statua del re Vittorio Emanuele II.
Fortunatamente fu scoperto che il progetto non era originale, in quanto l’autore l’aveva già presentato ad un concorso per l’erezione di un ateneo a Parigi.
Annullato il primo, fu indetto un secondo concorso del quale restò vincitore l’architetto Giuseppe Sacconi che modificò il suo primitivo progetto, ideato per piazza dell’Esedra, e presentò quello attuale, quando se ne seppe l’esatto collocamento.

La prima pietra fu posta la domenica 22 marzo 1885, nell’area del Convento dell’Ara Coeli, alla presenza dei sovrani Umberto I (1878-1907) e Margherita di Savoia (1851-1926) e col discorso di Agostino De Pretis (1813-1887).
Ma appena cominciarono gli scavi per le fondazioni, si trovò che nel lato nord del colle, la rupe tufacea terminava sotto la chiesa dell’Ara Coeli, contro la quale erano stati scaricati terricci di scavo e rifiuti. Fu quindi necessario abbandonare il primitivo progetto, che doveva fare del monumento l’Acropoli, perché quella parte artificiale non poteva sostenere la grande mole.
I lavori subirono alti e bassi, specialmente per la morte del Sacconi nel 1905, e aspre critiche furono espresse per il marmo [42] fatto venire dal bresciano per ragioni campanilistiche dall’onorevole Giuseppe Zanardelli (1826-1903).
Ancora incompleto, specialmente nell’interno (c'era un progetto sacconiano di congiungimento con i sotterranei dell’Ara Coeli per adibirli a sepolture dei re d’Italia), fu inaugurato dal re Vittorio Emanuele III in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia nel 1911.

La statua equestre, modellata  dal friulano  Enrico Chiaradia (1854-1901) e ritoccata, dopo  la  sua  morte,  da Emilio Gallori (1846-1924), Gran  Maestro   della Massoneria [43], venne fusa a S. Michele presso Ripa, col bronzo di 150 cannoni. Alta e lunga 12 m, nel suo interno, a lavoro compiuto, banchettarono 15 persone.
La figura arcaizzante di Roma che sovrasta la tomba del Milite Ignoto, come le due teorie trionfanti che le sono a lato, sono di Angelo Zanelli (1879-1943).

Tutti i più grandi artisti di quell’epoca hanno lavorato al monumento: Quadrelli, Rivalta, Pogliaghi, Monteverde, Ierace, Tonnini, Rubino, De Albertis, Cantalamessa, Maccagnani, Prosperi, Fontana, Bartolini, Astorri, Bisi, Quinzio, Benini,  Griselli,  Tonnini,  Palazzi,  Pantaresi, Sbricoli, Chiaramonte, Zocchi, Ferrari [44], Rutelli, Butti, ecc.

Ultime ad essere collocate sono state le quadriglie [45] guidate dalle due vittorie alate. Sopra un’ala di quella di destra, sono incisi questi esametri che tradotti dal latino [46] dicono:
"Questa opera non ha paura - Né dei procellari inverni - Né della triplice saetta di Giove - Né delle torme del carcere di Eolo - O del trascorrere del tempo - Starà salda finché dureranno - La terra il cielo, finché duri - La vita di Roma-

... stabit

dum terra polusque

dum Romanas dies".

_________________

[1] )            Giardino con alberi.

[2] )            Per il "palazzetto-viridarium" vedi Piazza San Marco – (Pigna).

[3] )            Vi è stata posta da Clemente VIII (1592-1605). Paolo II, incontro al suo palazzo, vi aveva fatto collocare una vasca di granito dalle Terme di Caracalla, che Paolo III (Farnese) fece trasportare alla Piazza Farnese. La fontana posta da Paolo II davanti al palazzo vi fu collocata nel 1467: "Nelli 1467, a dì 27 di jenuario a fò di lunedì, finì di essere tirata una concha di serpentino grande... la quale stava dinanzi a S. Iacovo del Coliseo e fecela tirare Pavolo II". Per il trasporto furono spesi "fiorini d'oro 41 e bolognini 49 e per entrarla nella piazza furono dovute buttar di già sei passi ed un palmo di muro delle case Caprara e Muti".

[4] )            Nei giorni della corsa, 3 tendoni, che sbarravano la strada, aiutavano i Barbareschi a fermare qui i Barberi provenienti, a corsa sfrenata, da Piazza del Popolo. L'ultima volta che funzionarono i tre tendoni fu il 21 aprile del 1882. Vedi via del Corso – Trevi.

[5] )            Giovanni Torlonia, nato in Roma il 3 settembre 1754 da Marino Torlonia e da Francescangela Langè, ambedue francesi (fede di battesimo a Santa Andrea delle Fratte), aveva avuto dal padre Marino, del fu Antonio, nel gennaio 18 dell'anno 1782, donazione di tutti i suoi beni, con la sola riserva di un vitalizio di 2000 scudi l'anno. Mercante e poi banchiere, sposò Anna Chiavari, figlia di un ricco sellaio. Comprò dalla Camera Apostolica per 93.775 scudi Torre Faina e Statuario, Buonricovero, Settebassi, Torre Spaccata, parte di Arco Travertino e Capo di Bove, (altri sono stati aggiunti poi) che da Pio VI (1775-1799) gli fruttarono il titolo di marchese di Roma Vecchia, che si aggiunse alla patente di nobiltà tedesca da lui ottenuta nel 1794. Fu da Pio VII (1800-1823) nel 1801 riconosciuto membro del patriziato romano e la Chiavari, ricevuta nel giardino del Quirinale al bacio del piede nell'udienza che il Papa soleva dare alle dame, introdotta dalla principessa Borghese, "a sedere nelle conversazioni nobili... sperando che essa assisa fra l’eroine altere diventerebbe nobile da parte del sedere (Pasquino)”. Il marito don Giovanni, nel 1803, diventò duca per l'acquisto, dagli Odescalchi, del feudo di Bracciano, e principe nel 1813 per aver comprato dai Pallavicini il feudo di Civitella Cesi. Nel 1820 aggiunse, con lo stesso mezzo, il ducato di Poli, già dei Conti, e Guadagnolo e nel 1822 le castellanie di Capodimonte, Marta e Bisenzio. Giovanni Torlonia dunque, nel suo mecenatismo ampiamente praticato, acquistò il teatro Tordinona (Ricostruì in mattoni, dopo aver demolito, quello in legno, nel 1859, il teatro d’Alibert o delle donne) e lo rinnovò completamente nel 1831, associandosi suo figlio Alessandro e facendovi lavorare i pittori Podesti (1800-1895), Coghetti (1804-1875), Paoletti (+ 1866), e Fracassini (1838-1868), quest’ultimo dipinse Apollo che consegna a Fetonte il carro del Sole, sopra il famoso sipario. Giovedì 16 gennaio 1834 vi andava in scena "La foresta d’Irminsul”, di V. Bellini (1801-1839) (Norma) e come è detto sul diario Chigi, alla data del 9 febbraio 1943: "Questa sera a Tordinona è andata in scena una nuova opera intitolata il Nabucco, musica di un tale maestro Verdi (1813-1901), che ha piuttosto incontrato, contro l'aspettazione". E così, come dice l'epigrafe dettata da Giulio Salvadori (1862-1928), sopra la fontanella-sarcofago al Lungotevere Tordinona, disegnata da Cesare Bazzani (1873-1939), l’Apollo aprì le "sue dorate scene a fasti e glorie d'arte musicale e libere si diffondono le pure melodie italiche di Giuseppe Verdi". I Torlonia fecero nel 1862 illuminare il teatro con lumi a gas, che già erano apparsi per le strade di Roma nel 1854.  Nel 1878 il Comune stipulò con Domenico Costanzi una convenzione per la costruzione di un grande teatro lirico che sostituisse il vecchio Tordinona, che cessò così le sue rappresentazioni ufficiali, quando il 20 novembre 1880 (genetliaco della Regina Margherita di Savoia) fu inaugurato, con la Semiramide di Rossini, il Teatro Costanzi. L’abbandonato Apollo, il fu Tordinona, venne demolito nel 1887 per la costruzione dell'omonimo Lungotevere e per il risanamento di una parte del quartiere di Ponte, quinto Rione della nuova Roma.

[6] )            Vi dava ricevimenti sontuosi, che secondo lo Stendhal sarebbero stati perfetti, se il padrone di casa fosse rimasto assente.

[7] )            Venuto in Roma da Venezia nel novembre del 1779.

[8] )            Niobe, così chiamata da G. Carducci, la madre di Napoleone I, nelle Odi Barbare:

Sta ne la notte la còrsa Niobe,
sta su la porta donde al battesimo
le usciano i figli, e le braccia
fiera tende su 'l selvaggio mare…

[9] )            All'angolo di Piazza Venezia con via Nazionale fu scoperta un'area contornata da cippi che si dubita fosse dedicata alla "Fortuna reduce ", altri arguisco fosse l’ “ara Martis”.

[11] )          Da questa Basilica partiva la processione che sostituiva le “Robigalia”.  La Robigalia era una processione per ottenere dagli Dei il patrocinio sulle messi crescenti. Usciva dalla porta Flaminia, traversava il Tevere sul ponte Milvio e passava nella via Claudia, dov’era, al 5° miglio, un boschetto dedicato a “Robigo” dio della brina. Vi si faceva una fermata ed il flamen “Quirinalis" offriva alla “Canicula” un cane rossigno ed una pecora e la cerimonia si concludeva con corse pedestri. Celebrandosi tale festa il 25 aprile, la Chiesa la trasformò nella ricorrenza di S. Marco, e la processione partiva presso S. Lorenzo in Lucina, recandosi sulla Flaminia cantando Kirie, salmi ed inni ecclesiastici. (Litania maior).

[12] )           Fu detta della "Biscia" dalla scala a chiocciola che era nel suo interno. Era di proprietà degli Annibaldi.

[13] )           « quod Consules dictae artis debeant sedere et ius reddere unicuique de arte ipsorum a Turre Mercati supra versus Capitolium et per totum Forum, secundum formam novorum Statutorum Urbis » (arte della lana – Livio V, 34).

[14] )           6 gennaio 1311 = per la fondazione di Milano.

[15] )           Discendente di Tommaso III di Savoia.

[16] )           Il 25 maggio gl’Imperiali, in quello stesso giorno, presero d’assalto 30 torri.

[17] )           29 giugno 1312.

[18])            Fu ricostruita poi, e definitivamente abbattuta il 13 agosto 1405, durante l'insurrezione civica, dopo la morte di Bonifacio IX. Il residuo della torre potrebbe essere quella torre mozza, coperta da un tetto spiovente a tegole, circa a metà di via della Tribuna di Tor de´ Specchi, anche se l’identificazione è molto controversa.

[19] )           La torre era collegata al palazzetto con una scala del XIII o XIV secolo, per quanto assai trasformata nei secoli successivi.

[20] )           Ancora nel 1469 a dì 30 aprile si trova scritto: "Eadem die S. Dominus noster Paulus II per manus mei Henrici cubicularii dedit Carolo Muto civi Romano ducatos largos papale scentum occasione pensionis domus de la Bissa apud S. Marcum”.

[21] )           Il concetto della bellezza, nell’Alberti, era così da lui espresso nella sua “De re aedificatoria”: “ut sit pulchritudo quidem certa cum ratione concinnitas universarum partium in eo, cuius sint, ita ut addi, aut diminui, aut immutari possit nihil quin improbabilius reddatur”.

[22] )           Poi il 6 novembre 1700 - "Domenica dopo pranzo l’ambasciatore di Venetia si divertì con una caccia de tori fatta nel gran cortile del suo palazzo con l’intervento di Dame, Prelati, Cavalieri, e riuscì di soddisfattione". (Msc.789, Biblioteca Vittorio Emanuele).

[23] )           Erano quelli che attaccavano briga per vendetta e che in certe circostanze avevano il diritto di sbarrare le loro case con serragli, e riempirle di gente armata.

[24] )           “Ipse autem Pontifex exactis conviviis ad maiorem erga romanorum populum benevolentiam animique hilaritatem ostendendam e domus fenestra, unde secrete convivantem popolum prospicere poterat, nummos argenteos in omnem multitudinem diffundere solitus est”.

[25] )           Per i giochi carnevaleschi i Rioni mantenevano i “lusores” appositamente ammaestrati. Fin dall’alto medioevo le terre soggette al Campidoglio contribuivano per patto, ai giochi. Toscanella dal 1300 mandò annualmente 8 iocatores e così Velletri, Tivoli, Corneto, Terracina, ecc.

[26] )           Queste corse si facevano anche nel Foro e, dopo Paolo II, da Porta del Popolo a piazza Santi Apostoli. Dice Montaigne: "Le long du Cours on fait courir tantôt quatre ou cinq enfants, tantost de Iuifs, tantot des veillards touts nus, d’une bout à l’autre de la rue...”. Ed un menante del 1583: "Lunedì i soliti otto ebrei corsero ignudi il palio loro, favoriti da pioggia vento et freddo degni di questi perfidi mascherati di fango a dispetto della grida...". (La corsa fu abrogata nel 1668). Ma fin verso la metà del XIX secolo fra gli introiti della Camera Capitolina, figuravano scudi 831,57 dalla Università Israelitica di Roma così ripartiti: scudi 531,57 per i dazi alla medesima imposti per i giochi di Agone e Testaccio e scudi 300 per la grazia concessa da Clemente IX agli Ebrei di non correre al palio e di non accompagnare la cavalcata per il Corso del Carnevale, mantenendo bensì, a carico della detta Università, l'obbligo di prestare gli atti di ossequio in Campidoglio ai Conservatori.

[27] )           Questi giochi erano caratterizzati dalla presenza del “Boia" che apriva sempre i cortei. Nelle "spese di palazzo" del 1508, è scritto: "Carlini 8 a mastro Gianbattista, esecutore di giustizia, quali sono per sua mercede per aver portato il ceppo e la mannaia nelle feste del carnevale per Agone, secondo è consueto".

[28] )           Il giorno 20 gennaio 1551 fu data "La caccia alla conca di San Marco de tori 14, che durò cinque dì e ci era fatto un castello".  Invece nel 1372 "... venuto lo sabato grasso se fece mostra delli tori nella piazza di Campidoglio et foro menati in Navone, et li ditti tori erano ligati con doi fune, una alla froscia laitra allo stinco pe ciasceduno toro...".

[29] )           Negli statuti del 1464, sotto Paolo II, si prescriveva il gioco dei due anelli, ad Agone per i cittadini, a Testaccio per gli scudieri. Nei cortei, in mezzo a due Sindaci: "procedeva l’Offitiale dell’Anella con il bastone in mano con due anella in cima".

[30] )           Aquileia, fondata nel 571 a.U.c. = 183 a.Ch., fu l'ultima colonia italica dei romani che ricevesse il diritto latino. Fu distrutta da Attila "lasciarono i fuggiaschi Acuileia, in barche negre, vestite di nero donne e bambini et era negra la notte in sul finire. Il chiaro luseva solo sull'isola dove vennero e sbarcarono con niente di proprio, tabernacoli ed immagini, tesori e fede, proprie soltanto le lagrime" "(a Grado)

[31] )           Un incendio, l’8 gennaio 1569, distrusse questo tratto: "Il giorno dell'Epifania s’attaccò il fuoco nel palazzo di San Marco dove habitava l'estate il cardinale Pisani, et se n’è brusata buona parte senza potervi rimediare, non senza pericolo di che tutta quella macchina fosse per ardersi".

[32] )           "... Prima che Sisto V fabbricasse a Montecavallo... sempre venivano nell'estate ad abitare i papi" (Panciroli). E così per Paolo IV, nel 1555 è detto: "In aestate reliato palatis Apostolico ivit ad aldes S. Maria ob aeris intemperiem...”.

[33] )           Caffè Castellino – via Cesare Battisti 135.

[34] )           Blaise Pascal inventò i trasporti urbani in comune nel 1662. Ottenne, sotto Luigi XIV, il privilegio di fondare una società di carrozze pubbliche.

[35] )           La più antica lapide sepolcrale era del 1264. L’altra, più recente, aveva questa curiosa dizione: "D.O.M. – Maestro Antonio De Treda Muratore. Questa è la sepoltura De Sua Mogliera E De Sua Figlia Catherina Disgraziata e Questa Sepoltura Propria Ista Li Cognati De Detto Mastro Antonio De Tradito. A, MDLXXXVI".

[36] )           La corporazione dei Camerinensi fu poi soppressa da Pio IX. La Chiesa demolita è stata sostituita con l’altra di S. Fabiano e Venanzio in piazza di Villa Fiorelli.

[37] )           “turris pedis Mercatis”.

[38] )           Architetto Guido Cirilli su disegni di Arturo Pazzi.

[39] )           La chiesa di San Romualdo, che dava nome alla via, fu eretta quando ai Camaldolesi venne distrutta la loro chiesa di Sant’Antonio o Niccolò de Forbitoribus presso Sant’Ignazio. Per allargare via del Carovita, i gesuiti acquistarono la chiesetta di S. Antonio e Nicolò de Forbitoris (detta anche “a san Mauto”) che aveva annesso il convento dei Camaldolesi che passarono in quello di S. Romualdo vicino Piazza Venezia.

[40] )           Il 18 febbraio 1564. "La casa s'avanzava, dal posto ov’è stata posta la lapide, alquanto verso l'attuale giardinetto che è di fianco alla chiesa di S. Maria di Loreto". Non doveva essere alta, probabilmente di soli due o tre piani. Era già appartenuta ai Foschi di Berta, che nel medioevo ebbero in vicinanza case fortificate; l'abitazione aveva una torre adiacente. Michelangelo la comprò fin dal 1532 e la lasciò al suo erede Leonardo, suo nipote, residente a Firenze, questi la affidò, nel maggio 1564, al pittore Daniele Ricciarelli da Volterra (1509-66), alle seguenti condizioni: "... et con passo espresso che accadendo che esso messere Leonardo solo o con la sua famiglia volesse venire a Roma per i suoi negozii o per altro, gli siano riservate libere tutte le stanze della torre... et similmente con patto espresso che detto messer Daniello non possa apigionare ad altri per alcuno spazio di tempo la detta casa, ne meno le stanze della torre, che messere Leonardo si ha riservate quando gli occorre venire a Roma come sopra detto, ecc...”.

[41] )           Sorgeva proprio a fianco del Vittoriano all’altezza delle sepolcro di Caio Publicio Bibulo, monumento repubblicano, deliberatogli dal senato "honoris virtutisque causa”. Esso indica con sicurezza che il luogo era fuori delle mura e del pomerio, all’inizio della Flaminia.

[42] )           Marmo botticino.

[43] )           Lavorarono nell’interno dell’Augusteo, che in quel periodo era adibito a studio dello scultore.

[44] )           Altro Gran Maestro.

[45] )           Quella della libertà, a destra, è di Paolo Burtolini e l'altra, con vittoria alata, che corona il propileo di sinistra, di Carlo Fontana, che prese a modello la duchessa di Sermoneta Vittoria Colonna.

[46] )           “Non hoc imbriferas – hiemes opus – aut Iovi ignem tergeminum – Aeolii non agmina carceris horret – annorumque moras – stabit dum terra polusque – dum Romana dies”.

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Palazzi, Edicole e Chiese lungo la via:

- Piazza Venezia
- Palazzo Bonaparte
- Palazzo Venezia dalla Piazza
- Palazzo Venezia da Via del Plebiscito
- Palazzo Venezia da Via degli Astalli

- Il Vittoriano

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